Il sogno
I ricordi relativi ad Alberto Caramella sono vari e distribuiti in una
manciata di anni. Così abbiamo vissuto insieme, avventure come quella del
festival Internazionale di Genova a Palazzo Ducale o come aTorino presso
il salone del Libro. Lì avevamo presentato insieme un corposo video, ricco
di testi e poeti provenienti dalle varie parti del mondo.
Ho in mente ancora il convegno delle riviste letterarie che ebbe
luogo alla Fondazione il Fiore. Ancora, l’opera teatrale di Ernesto Cardenal
che proponemmo, sempre in Fondazione, alla presenza di Cardenal stesso.
E così via, e così via.
Caramella, negli anni, aveva incontrato poeti di ogni dove, com-
presa la poesia italiana. si era dunque posto nella situazione migliore per
entrare nei lavori in corso, comprenderli, ed eventualmente tenerne conto.
I suoi ultimi anni erano quelli che coincidevano con la esplosione
della compattezza della poesia nazionale.
Credo che il naturale istinto intelligente che gli apparteneva, lo abbia
sconsigliato di aderire a questa o quella forma poetica; Caramella sempli-
cemente presentiva che il mondo sarebbe diventato poeticamente tutt’al-
tro. Quasi in una sorta di «si salvi chi può».
Pian piano la forza della poesia veniva a coincidere con i canali della
stessa. Il Vate lasciava il posto al gestore del poetico, della funzione edito-
riale, dello spazio in un quotidiano, fino addirittura alla presenza nei
premi letterari o alla direzione dei festival stagionali.
Insomma, il packaging della gestione poetica era diventato di troppo
peso rispetto alla poesia stessa che dentro vi albergava.
Era così difficile scegliere un autore tra gli altri, un testo fra gli ulte-
riori. La critica si umiliava non poco, con una funzione sociale a posteriori. Cioè, dato il rilievo di un autore poteva trovarne le ragioni giustificative.
Quasi mai era in grado di rivoltare le carte o di scoprire e riscoprire.
Così era più semplice lodare Montale che non Ungaretti o Rebora.
Caramella se n’è andato prima che le acque si intorbidissero comple-
tamente e, a maggior ragione, prima che accennassero a richiarificarsi,
come forse oggi pare possibile leggere.
Certo, Caramella ha lasciato molto materiale, come se presagisse di
avere il tempo contato.
Del resto, parafrasando quanto Giovanni Raboni scriveva di Cle-
mente Rebora, si può dire che la poesia di Caramella si divide in due
parti: la prima è quella in cui si vieta di scrivere e per riuscirvi completa-
mente si spinge fino alle vette della sua professione. La seconda parte è
quella dove la fecondità è animata da tutto quel lungo tempo della costri-
zione al silenzio poetico, almeno per quello che riguarda la scrittura nella
pagina.
Ecco allora prendere corpo l’ampia vegetazione della sua poesia che a
noi è rimasta. Dicevo che Caramella non si schiera, non giunge a nozze
poetiche di interesse. Coltiva così quella lucida poesia il cui chiarore di
scrittura noi ben conosciamo. È come se vi fosse una prosa all’interno del
suo verso poetico. Certe volte sembra di scorgervi una qualità galileiana e
proprio questa prosa nel verso della poesia ne costituisce la ragione e la
causa di tale limpidezza che ha la connotazione della chiarità.
Caramella individua così una noblesse del contenimento stilistico,
una neutralità rispetto al troppo formale che circola intorno. Una via sot-
tile come quella che conduce alla sua casa della luce in via san Vito.
Di Rosai cita la strettezza dei percorsi per difendervi, fra i due muri a
secco, la sua garbatamente ironica imperturbabilità. È più facile, se si ha la
sapienza del funambolo, cadere da uno dei due lati, che non tenersi in equi-
librio e, soprattutto, mantenere la quota. Lì, il nostro autore lancia, come
candidi aeroplanini di carta, i suoi quasi sillogismi poetici, le sue geometrie
semplificative come un Parini che si muovesse nel rispetto del dubbio car-
tesiano.
Così l’inappartenente Alberto Caramella nasconde il meglio della
sua produzione nella mimetica dell’abbondanza del suo scrivere. Credo che il suo lavoro possa oggi essere suddiviso, con chiarezza, in un facoltoso
materiale di cantiere e poi il suo meglio, che immagino confluire in un
libro unico. Non a caso mi viene in mente il Canzoniere di saba. Ipotizzo
un «Canzoniere della Casa della Luce» di Alberto Caramella che dovrebbe
rappresentare la purissima pagliuzza d’oro, setacciata la sabbia pulita in cui
lui, abilmente, ha saputo nascondere senza occultare.