Il Flusso di Coscienza
L’inconfondibile stile della poesia di Alberto Caramella, oltre ad
incantarci, potrebbe fare scuola. E quando, ai versi riflessivi dove pacata è
anche la cadenza, fa seguire impennate da cavallo di razza, di scuole ne
potrebbe fare molte. La grande quantità delle sue pagine scritte, sempre di
notevole livello, stupiscono, divertendo non di rado il lettore perché, nel bel
mezzo dei versi o in chiusura salta fuori una burla, di qualsiasi natura, da
trasformare una poesia nella scommessa temeraria di uno che ha vissuto
molto, capito di più, provato sulla sua carne tutte le emozioni umane che
la vita ha pensato di mettergli sul piatto.
E non si può escludere che in quelle sue pagine meditate ma anche in
quelle scaturite da emozioni più o meno profonde, più o meno improvvise,
non ci sia una sorta – è un azzardo definirla inconscia? – di criterio, di
regola, di architettura singolare. È un po’ ossimorico accostare regola ed
inconscio, ma qui si tratta di questo.
Fa venire in mente spesso nel corso della lettura, la perfetta struttura
sintattica di Cicerone, sulla quale ha costruito le sue ossa il mio latino al
ginnasio anche se dopo ho preferito autori latini diversi. Ma la sintassi, i
periodi, lunghissimi di Cicerone – frase principale e innumerevoli dipen-
denti, senza esclusione, erano palazzi potenti, perfetti.
Ma c’è di più. sempre leggendo Alberto Caramella, spesso mi sono
trovata a ricordare Proust. Perché Proust? Perché, prima di iniziare la stesura
de La Recherche, Proust frequentò per molto tempo le cattedrali nor-
manne, le piccole, splendide cattedrali della Normandia – ma anche della
Piccardia – rimanendo seduto per ore nella navata di sinistra da cui assor-
biva forma e struttura delle pietre. A sua volta assorbito dal loro linguaggio.
Per ore. Per giorni. Per due anni.
Non sto a dire quale scoperta sia stata per me, a suo tempo, appren-
dere tutto con l’aiuto del grande LeoneTraverso, che oltre che germanista
era dotto in ogni scibile, riconoscere nelle pagine de La Recherche, l’im-
pianto architettonico di quei capolavori. E riconoscere nella narrazione,
l’ampiezza, il respiro, le pieghe, le rientranze, le ombre, a partire dalla
navata di sinistra per finire nel muro esterno della navata di destra. Il
romanzo restituiva, svelandolo, il senso delle pietre.
Ma per portare sulla pagina questi recuperi profondi, per realizzare
questa ricerca, è necessario un metodo. o qualche metodo. Per tirare fuori
passo passo, immagine dopo immagine ci sono voluti grandi scrittori nei
primi decenni del ’900 – Virginia Woolf, James Joyce, Italo svevo, Du Jar-
din – per non fare altri nomi. La critica l’ha chiamata ‘monologo interio-
re’, ‘flusso di coscienza’ con delle differenze, la nuova scrittura carica di ele-
menti arditi, innovatori, come lo scambio tra presente e passato, tra realtà
e memoria; l’alternanza dei punti di vista, il variare dei soggetti, riuscendo
a raggiungere l’espressione più naturale, grazie al perseguire, da parte degli
autori, la verità e l’autenticità interiore con costanza.
Questo presentare una realtà minore accanto ad una superiore, così
senza aggettivi, ricca solo della sua presenza decisiva e ineliminabile, è
stata percepita dal lettore attento e aperto, proprio nel suo darsi e nel suo
contrapporsi, ma anche nel contestarla, nel soffocarla segretamente e nel
permettere che solo in lontananza sia sentita come «elemento» positivo,
naturalmente acquisito alla tradizione del romanzo.
Una fatica a volte lieve, più spesso apparentemente indifferente, sem-
pre convivente ma senza mai fondersi e quindi estranea e lontana. Momento
di fusione che resiste, di dialogo che fatica a porsi ma che chiede di convi-
vere. Devo fare qualche esempio, come questo passaggio de La crociera di
Virginia Woolf: ‘A volte il fiume è di porpora, opulento, o è di color fango
o di un azzurro sfavillante come il mare. Vale la pena guardare in giù per
vedere di più… Ma quella signora non guardava né in su né in giù. La sola
cosa che vedeva era una chiazza circolare iridescente che passava lenta sul-
l’acqua, con un filo di paglia in mezzo. La chiazza e la paglia passarono più
volte dentro il tremulo velo di una grossa lacrima che spuntava. Il Lungo-
tamigi sporgeva qua e là in spigoli simili a tanti pulpiti: le fioraie i cui discorsi meritano sempre d’essere uditi, ora parevano megere inzuppate: il
signor Ambrose che di norma aveva un passo svelto e ritmico ora sembrava
un vichingo o un Nelson colpito; i gabbiani avevano mutato il tono della
voce. La sua anima era una ferita esposta a prosciugarsi all’aria’.
sentiamo Alberto Caramella che spesso è al suo meglio e dà fondo
all’intero ventaglio del suo sentire intenso: “L’informazione arriva, / adatta
a ritrasmettersi nel soma / dall’inutile forma dove è nata. / Percorre il
tempo / a venire o passato: / nella trireme / parla greco / o di Virgilio recita
il latino / percorre il tempo / e sulla pagina stenta ritenta. // Affastella il
vento / le foglie che riappiccica e convince: / soltanto per diletto? / In gocce
fitte ed insistenti / frusta la pioggia strabiliata e mézza / per qualche suo
progetto?” oppure: “Vestito sono andato all’uscio. Uscito / ho richiuso la
porta con la mano / senza far rumore. La serratura / aperta e chiusa / imba-
razzata dal suo clic. / Disceso piano / di un gradino o due / ho trovato nel
buio un tono nuovo. / Cambiato il mondo. Non è più.”
Due bellissimi esempi di un mondo interiore che si fa avanti con il suo
fluire inesauribile di emozioni nel quale si arriva a configurare la «vera»
realtà. Virginia Woolf, a proposito della propria scrittura, dice in una delle
sue lettere: ‘Ciò che intendo fare scrivendo è molto simile a ciò che si può
fare suonando il piano… cioè scoprire ciò che è dietro alle cose, ascoltare il
silenzio, e ciò che la gente non dice. È la sola cosa che vale la pena di fare’.
‘La verità – continua Virginia Woolf – risiede più facilmente nella
poesia che più spesso soggiorna nei sogni e nelle emozioni che, sempre, a
saperli leggere sono più veri della realtà perché è lì che si liberano dai
limiti imposti proprio da quella che chiamiamo «realtà». «Realtà oggettiva».
Contrassegnata dalla accettazione dei fatti, così come sono, che ci porta
diritti alla solitudine, alla incomunicabilità. Ecco la necessità, al di là delle
cose, di raggiungere una conoscenza che permetta di trovare l’equilibrio fra
la realtà di superficie e i percorsi dell’analisi interiore. Chi conosce la
natura del sogno – dice ancora Virginia Woolf – sa che la vita non è mai
una faccenda di quattro pareti dove oggetti e persone esistono nello spazio
della luce oltre la quale c’è solo oscurità’.
Noi riceviamo miriadi di impressioni, arrivano da ogni parte, sono
una pioggia incessante di innumerevoli atomi che cadono, assumono forma, diventano vita. La quale non è solo una serie di luci accese, la vita
è spesso un alone luminoso e scrivere è pescare nella fluidità dei mondi
interiori ed estrarre la realtà. «Una» realtà. La tecnica di Alberto Caramella
è raffinata e precisa nel cogliere le cellule di verità attraverso precise analisi
interiori, esitazioni, dubbi. La sua arte di ravvicinare poesie d’argomento
diverso e facendole dialogare fra loro, in certo qual modo, è come se le aiu-
tasse o costringesse a riconoscere il «vero» che sta fra di loro e ad accettare
le conseguenze della scoperta.
Mi viene una gran voglia di chiamarla «ricerca della materia oscura»
di cui l’astrofisica parla e riparla. Questa ricerca di Alberto Caramella non
di rado è sconcertante ma anche esaltante. Non si distrae mai dalle offerte
che la vita gli reca. È bravo ad afferrarle e a dar loro un nome. spero che
Alberto sappia, i poeti sono sempre vivi, abbia saputo, sapesse che dare un
nome significa porre dei limiti.
Giudicando con diversi canoni di giudizio mi viene in mente un’e-
spressione felicissima di Emerico Giachery ‘un ossimoro permanente’,
ricordato da Marilla Battilana nella sua prefazione a Poesie, intendendo,
credo alludere alla grande tensione interna, non risolta, fra due poli: fatti
veri e richiami, immagini autentiche e raffigurazioni, voci vere e l’eco; un
orologio a pendolo perpetuo: tra forme chiuse e forme aperte, tra allusioni
e figure, sempre molto arricchita, personalizzata da innovazioni lessicali,
concettuali e ludiche ma anche da inattese profondità.
Da Mille scuse per esistere: “… seguendo i sogni miei / ricalco i
sogni tuoi… / … I lunghi pomeriggi sotto i tigli / i giochi sciatti fra mac-
chie di sole. / … la mano che scrive per gioco… / Il cuore pulsa e
ripulsa, nel vuoto… / … L’io / che sa di non essere / s’inventa mille scuse
per esistere.”
Il percorso di questa scrittura, sia monologo interiore, flusso di
coscienza, ossimoro, che pure è il più completo dei flussi dal profondo,
parte dal primo movimento, dalla prima immagine o situazione, e pro-
cede, forse per trascinamento, fin sotto la superficie dove c’è meno luce
ma dove s’addensa l’attenzione attorno a nuove coscienze, a nuove occa-
sioni senza mai rinunciare alla presenza della prima impressione legata ad
elementi esterni sempre ben radicati nella città, nelle strade, nel tempo reale. sempre pronti poi a sgusciare di lato o di sotto non appena l’autore
interviene e impone il suo flusso di coscienza. Ascoltandolo e facendolo
sentire.
In Alberto Caramella troviamo similitudini, analogie con valore evo-
cativo, simbolico non necessariamente decorativo ma intrinseco al resto e
funzionale. La libera associazione psicologica, naturalmente, può man-
care di logica ma mette in evidenza l’ego che funziona bene nei processi psi-
chici e che, da solo, dà senso alle connessioni.
Il flusso di coscienza nella poesia corre il rischio di assumere la velo-
cità di un lampo come nella poesia L’ultimo capo di Alberto: “… / D’im-
provviso svelato il teorema / nell’evidenza del disegno nitido… / … m’ac-
compagno al segno / con l’illusione di tornare indietro” (i due poli: un
segno e il suo moto di fuga all’indietro).
oppure, sempre di Alberto Caramella: “… / Filippo… orafo a
Firenze dove ha fabbricato / la cupola del duomo nel mistero. / … Buendìa
ha suscitato / rivoluzioni e guerre micidiali / ma poi s’è ritirato a fare l’o-
rafo, / e fa e disfa pesciolini d’oro… / Io faccio e sfaccio attento queste righe
/ che tramano un colloquio inesistente” (anche qui i due poli: fare con
l’oro; disfo righe che tramano un colloquio inesistente).
Il tutto molto ossimorico. E percorre velocissimo il tragitto da un
polo all’altro, dalla realtà all’irrealtà. Con la velocità di una freccia.
se si pensa ai tempi lunghi della prosa di James Joyce!
oppure vediamo dove il flusso è più chiaro e meno ossimorico: “…
/ in una macchia di sole riandando / vacuamente al passato che discorre /
di là dal muricciolo come il traffico / dell’autostrada oltre il lento giardino:
/ con un rumore senza compagnia.”
E altrove: “… È questa la stagione colorata / quando le donne snu-
dano le gambe, // come le bianche spade d’una guerra, // che battono e
s’incrociano nel sole / ognuna balenando dai suoi lampi.”
Curioso questo «flusso» fra gambe femminili e spade.
Penso che ci vorrà molto tempo per leggere e studiare attentamente gli
scritti di Alberto Caramella. E altro ancora per tirarne le conclusioni. È
troppo poliedrico, contiene troppi esempi di metodo, di penetrazione oggettiva dentro le sue realtà e il loro opposto, la sua totale abolizione dei
normali metodi di riferimento per condurre il lettore al cuore della sua
opera dove dice che “la poesia non è solo estetica ma anche etica ed è un
atto d’amore generosissimo”. Altrove dice che “la poesia mette il reale in
salvo, al di sopra del tempo”.
splendide intuizioni.
Nella Nota di presentazione della antologia Poesie pubblicata da Poli-
stampa, Caramella dice, fra altre osservazioni: “Nascoste dietro le parole
vibrano le anime. E ogni tentativo di comprendere tutto, e una volta per
tutte, sarà sempre vano”… e più avanti: “ogni sforzo fatto per conoscere i
moti di un’anima non è forse un tentativo di conoscere meglio la nostra
cultura, i nostri sentimenti, insomma noi stessi? senza l’Altro io (da scri-
versi con la lettera maiuscola) non si pone”.
Dall’Altro io s’impara sempre? o si disimpara?
Vorrei chiudere qui, ricordando alcune righe di Roland Barthes
che sembrano cadere a proposito: ‘Vi è un’età in cui si insegna ciò che si
sa; ma viene poi un’altra in cui si insegna ciò che non si sa: questo si
chiama «cercare».
Giunge forse adesso l’età di un’altra esperienza: quella del «disimpa-
rare», di lasciare lavorare il rimaneggiamento imprevedibile che l’oblio
impone alla sedimentazione dei saperi, delle culture, delle credenze che
abbiamo attraversate. Questa esperienza porta, io credo, un nome illustre
e fuori moda, che oserei prendere qui senza complessi, al bivio stesso della
sua etimologia: Sapientia: senza potere, un po’ di sapere, un po’ di saggezza
e più sapore possibile’.
Questo «sapore» intriga.
Vogliamo ricordare che sapientia deriva da sapere?
sapore. Quindi c’entra il «gusto».
Ma c’è di più. Barthes non dice che sapere significa anche emanare
profumo.
Eppure dentro la parola sapientia c’è anche il significato di avere odore.
In molti testi antichi, sacri e non, orientali e medio-orientali per lo
più, si trova spesso scritto che i bambini (le loro teste) ‘sanno di campo’.
Quindi di selvatico. Ma poi viene l’adolescenza. Che significa ottenere il proprio odore
personale, da adulti, (ad-olere), (ad-olescens).
Com’era facile per gli antichi cadere a picco dentro il senso delle
parole e tirarne fuori la gemma, il significato primo, quello verde, quello
prisco.