La Custodia della Parola
La scrittrice americana Toni Morrison – Premio Nobel per la lette- ratura 1993 – in apertura di un suo romanzo, A casa (2012), mette una enigmatica poesia che dovrebbe introdurre nello spirito del suo racconto: Frank Money, il protagonista, riceve un giorno una lettera dalla lontana Georgia, che lo costringe a ritornare a casa. Nella cittadina dove è cresciuto e che ha sempre detestato, affronta i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, ma anche i ricordi della maturità come la guerra che ha svuotato la sua esistenza. In questo ritorno «a casa», tuttavia, riscopre tutto il coraggio dei suoi vent’anni, quelli che credeva di aver perduto per sempre. Dunque, la poesia di Toni Morrison è la chiave della storia di un uomo, apparentemente sconfitto, ma che raccontando e raccontandosi ritrova la propria dignità e, appunto, la propria casa. Ecco, allora, questa poesia: ‘Di chi è questa casa? / Di chi la notte che scaccia la luce da qui? Dimmi, a chi appartiene questa casa? / Non è la mia. / Ne ho sognata un’altra, più affet- tuosa, radiosa / con vista su laghi solcati da barche dipinte; / su campi grandi come braccia aperte per me. / Questa casa è strana. / Le sue ombre mentono. / Dimmi, racconta, la toppa accoglie la mia chiave – perché?’ 1 . Questa poesia, in realtà, non è soltanto un «incipit», raffinato e azzeccato, per la toccante storia umana di Frank Money, ma è particolarmente un atto di profonda fiducia nelle possibilità della parola di custodire un senso alla vita quando essa soprattutto rischia di perdersi nell’apatia della sconfitta o della disillusione. È un atto di fede, staremmo per dire, nel mistero della vita umana perché la letteratura e la poesia sono la «chiave» di ogni nostro destino, buono o brutto che sia. E mi è venuto in mente allorché, ma non da oggi, mi sono fatto una domanda a proposito del singolare destino di Alberto Caramella fin da quando l’ho conosciuto, fre- quentato, apprezzato non solo come poeta, ma anche come amico indi- menticabile e davvero squisito: che cosa lo ha spinto, infatti, a inondarci – nell’ultima parte della sua vita – di tanti voluminosi libri di poesia che ancora fatichiamo a comprendere e ad assimilare con la dovuta frequen- tazione critica? È stata una mania, una follia senile, per così dire, di un avvocato di grido nel forum fiorentino e anche oltre? È stata una sua necessità interiore, un rovello, un desiderio lungamente coltivato e poi sfociato in una scrittura assidua, quotidiana, che niente poteva arrestare o sopire? La risposta o le risposte a queste domande, a ben vedere, non si tro- vano più nell’ordine di una vita, certo eccezionale e singolarissima, ma vanno intuite e cercate proprio nella sua scrittura poetica che si è posta, volutamente, al di fuori di ogni scuola o di ogni imitazione del clima let- terario contemporaneo. Era e voleva restare semplicemente se stessa: cifra della solitudine e voce quasi orgogliosa di questa solitudine nella diaspora che la nostra poesia ha inaugurato proprio sul finire del Novecento. Poe- sia come testimonianza, dunque, e nient’altro che testimonianza della poesia in un crogiuolo del tempo in cui si sono smarrite le mappe e gli orientamenti. Ma quale testimonianza potrà offrire «l’umile poesia» di Alberto Caramella, come di tanti altri straordinari poeti della nostra diaspora let- teraria del Novecento? senza dubbio, come ha stupendamente ipotizzato Czeslaw Milosz, quella del ‘tono minore’, del dubbio, dell’amarezza, della cupezza che sembrano distinguerla e che deriva, certo, dalla fragilità, di ‘tutto ciò che chiamiamo civiltà o cultura’, cioè dal presagio che quanto ci circonda è precario in sommo grado. Tutto può scomparire da un momento all’altro, e senza lasciare alcuna traccia. Tuttavia, resta sempre una via di salvezza. Guardando al Novecento che ha dissipato tante ener- gie creative, dalla prospettiva della «parola», proprio questa parola ci fa intravedere una diversa visione della poesia e, come scrive Milosz, essa diventa un ‘inseguimento appassionato del Reale’, un non mai appagato desiderio di mimesi, una fedeltà al particolare per sopravvivere a ‘periodi poco propizi’ non solo alla poesia, ma anche al compito umano di colti- vare l’anima 2 . Credo fermamente che Alberto Caramella appartenesse a questo genere di testimoni della poesia, con le sue luci e le sue ombre, le sue fra- gilità e la sua forza, il suo ‘tono minore’ e le sue improvvise impennate di gioia, di scoperta della memoria, perfino di sottile e garbata ironia. Emblematica appare, in questo senso, quella poesia in Mille scuse per esistere (1995) che celebra questo atto umile della scrittura poetica, e, a quel che ne so, ben pochi poeti hanno sentito, questa umiltà della poesia in un mondo tentato dal narcisismo imperante e dalla compiacenza di sé: “Quando alla poesia // basta ed avanza un tocco della mano / che cosa vale la parola mia? // L’immagine si forma intransitiva / purissima assoluta dal suo niente”. Da notare “quel tocco della mano”, quasi l’ammissione di essere soltanto un artigiano della parola. Ed essere un artigiano, nel senso alto del termine, era la punta di orgoglio di Alberto Caramella. In ogni caso, esperto certamente dei trabocchetti che l’uomo con- temporaneo mette in atto per ingannare e autoingannarsi, il nostro poeta sembra che abbia fatto sua la pregnante osservazione di simone Weil allorché notava: ‘Due cose irriducibili ad ogni razionalismo: il tempo e la bel- lezza. È da qui che occorre partire’. oppure: ‘La distanza è l’anima del bel- lo’. Anche per Alberto Caramella, quindi, come per simone Weil, il passato è quel ‘tempo che ha il colore dell’eternità’. Infatti, l’uomo fa fatica a penetrare la realtà perché in ciò gli sono di ostacolo o di impaccio il suo «ego» e l’immaginazione che all’ego è asservita. soltanto la distanza tem- porale ci consente di vedere la realtà senza colorarla delle nostre passioni, ma di vederla, appunto, del ‘colore dell’eternità’. Per questa ragione, il passato ha tanta importanza nella poesia di Alberto Caramella, ed ose- remmo aggiungere che ha grande importanza per tutti noi che non sap- piamo più ascoltare la realtà, ma unicamente il nostro «ego». Proust diceva che ‘il sentimento della realtà è allora puro; ed è questa la gioia pura. È questo il bello’. D’altronde, che cosa cerchiamo nella poesia se non un’idea di umanità purificata che cerca il ‘colore dell’eternità’, ossia semplicemente la bellezza? Forse era proprio questo che, tra l’altro, intendeva dire Dostoevskij – scettico sulle sorti della civiltà – quando affermava che la bellezza salverà il mondo. La crescente disperazione per la frattura tra la realtà e le aspirazioni del nostro cuore sarà così scongiurata e il mondo che esiste oggettivamente – come forse appare agli occhi di Dio e non come è percepito da noi, con i nostri contraddittori desideri e le nostre sofferenze – sarà accettato in tutto il suo bene e il suo male. E a questo proposito mi sia consentito commentare brevemente una poesia di Alberto Caramella, sempre in Mille scuse per esistere, che dà la dimensione di questo incastro tra il tempo e la bellezza della parola che il poeta sentiva come la cifra a lui più necessaria e insostituibile: “scandisce il pendolo un moto simmetrico. / Nell’animo ritorna, // specchio che raddoppia, / la gioventù mia splendida. // Rinasce il desiderio / puro come la luce. // o, quando annotta, un canto. / Ritorna ogni fulgore. // Miracoloso pende / il fiore sullo stagno. // Manda un profumo lieve / di tragica precaria libertà.” La poesia si regge su due immagini concrete e reali, in apparenza senza alcun concorso attivo dell’animo del poeta: il pendolo e il fiore sullo stagno. Nel ritmo simmetrico del pendolo, in effetti, la parola registra quella memoria involontaria che Proust ha immortalato nella sua Récherche du temps perdu. Ed è il ritmo nascosto del tempo che riporta in vita “la gioventù mia splendida”, ma raddoppiata ora dal desiderio di poterla sentire “pura come la luce”. sappiamo soltanto «dopo» se abbiamo avuto una splendida giovinezza o un’infanzia triste e solitaria. Dopo che il tempo ha purificato di ogni scoria impura le nostre esperienze interiori e fatto emer- gere la realtà. L’immagine, quindi, si allarga in una visione notturna – tempo propizio alla riflessione più spassionata – che fa emergere la neces- sità del canto, della parola che ferma impressioni e ricordi. Ma poi, ecco l’immagine conclusiva che testimonia l’umiltà di questa parola, il suo canto sommesso e doloroso: il “miracolo”, dice il poeta, di scorgere un fiore sullo stagno che pende sul precipizio dell’acqua, ma che manda un imper- cettibile profumo “di tragica precaria libertà”. Il salto dal pendolo al fiore sullo stagno è indubbiamente vertiginoso. Cosa vuole dire esattamente questa poesia di Alberto Caramella con un salto così brusco e non programmato? È il passaggio, l’esodo anzi, tra il lin- guaggio puro della giovinezza e quello della maturità che ha il tono cupo, apocalittico che caratterizza gran parte della poesia del Novecento. Il poeta è sospeso tra questi due tempi della sua vita e della sua esperienza estetica. Ma è sospeso perché si trova in una condizione di «ascolto», nell’esercizio della parola, del suo tempo e del tempo della storia in cui si trova immerso. Di fatto, l’immagine biblica dell’arca è una eccellente metafora della con- dizione del poeta che viene ospitato dalla parola e da essa custodito nelle vicissitudini della vita e della storia. L’arca della parola, infatti, è il titolo di uno splendido libro di Jean-Louis Chrétien dedicato proprio alla parola umana. Come l’arca costruita dal patriarca Noè accolse uomini e animali al tempo del diluvio, così avviene con la parola: con la parola, come in un’arca, noi – e a maggior ragione un poeta – possiamo accogliere cose, ricordi, esperienze, riconoscendoli nella loro realtà e facendoci carico della loro custodia e manifestazione. Ma anche il poeta, per conseguenza, è da sempre ospitato nella trama delle parole che gli vengono rivolte dalla memoria o dalla vita e in cui egli si trova a vivere. Penso che ad Alberto Caramella sarebbe molto piaciuta questa immagine dell’arca della parola, se è vero, come egli ha scritto in una poesia di Lunares murales (1999) che “la pagina bianca / invita al futuro. Vuole essere riempita / di vita di vita”. Perché i poeti sopravvivono, in un modo o nell’altro, al diluvio di epoche infauste e poco propizie all’ascolto della parola. Con la parola ritornano sempre «a casa».