Sei Poesie Inedite di Ferdinando Tartaglia, a cura di Adriano Marchetti
“Esercizi di verbo”
C’è un nesso fra la poesia di Tartaglia e la sua vocazione di ‘prete’, la sua permanente ‘eresia’?
Forse sono gli scritti di poesia che ri-velano maggiormente i volti di Tartaglia. «Io non sono io. – scrive – Quando parlo di me, io non parlo di me. Io non prósopon, ma àbsopo e póstsopo, puro». La parola, rimasta orfana, con le sue collere e imprecazioni, le sue invenzioni e autoderisioni si coniuga all’esilio gnostico o eretico per accedere al dettato di una «pura deverbazione del Verbo» o «pura delogazione del logo», ossia di un dire ritmato non più come l’unificante, bensì come autogerminazione e proliferazione, come entropia e riverberazione inesausta. Il linguaggio accoglie molte stratificazioni, cadenze, calchi, gerghi, citazioni, deliri di assonanze e allitterazioni, metafore e metonimie, inversioni sintattiche. Il lessico s’imbarbarisce tra arcaismi e idiotismi, distorsioni e storpiature, con parole, «intralacerate per endodistanziazione pura», che non mirano tuttavia agli effetti anomali di un registro espressionistico. La forma è il dramma stesso, non il suo strumento di rappresentazione.
La sete ardente di ‘novità’ si congiunge paradossalmente alla primigenia esperienza che caratterizza il balbettio alluso nel ludus che Tartaglia stesso fa sul proprio patronimico: «Tartaglia è oggi il balbettante che balbetta ne la bocca di voi balbettanti: ne la offesa del balbettante uomo, ne la lesa del balbettante universo, ne la blesa del balbettante Dio. Non avevo mai balbettato, così basso. Io, usignolo d’arresa. Io, merlo di lisca. Mai avevo fischiato, così basso». «Balbettando: dico. Balbettando: annuncio. Balbettando, proclamo».
Questa piccola manciata di poesie allude a tratti di un cammino di scrittura iniziato da Ferdinando Tartaglia presumibilmente, come suggeriscono le date autografe dei componimenti, alla soglia dell’adolescenza e durato, attraverso revisioni continue e trascrizioni, tutta la vita.
Cenni biografici
Molto poco sappiamo della sua infanzia e adolescenza. Nato a Parma il I ottobre 1916, Ferdinando Tartaglia rimane orfano in tenera età. Compiuti i primi studi alla Congregazione Mariana di S. Rocco, accede al Seminario di Parma dove riceve l’ordine nel 1939. Laureatosi in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana, nel 1941 è inviato a Firenze e assegnato alla parrocchia di via Piana (Bellosguardo). Nel 1943 inizia il periodo pubblico fiorentino e il suo allontanamento dalla Diocesi. L’aristocrazia fiorentina è attratta dalla parola poetica che risuona nelle sue omelie domenicali. Ben presto la radicalità della sua testimonianza e del suo pensiero esigente finiscono per urtare e sconcertare i benpensanti, ma diventa, soprattutto dopo la sospensione a divinis, un punto di riferimento per gruppi di intellettuali cattolici, protestanti, comunisti, anarchici animati da un desiderio di cambiare la realtà politica del paese. Il raffinato oratore ha qualcosa di ascetico insieme a un’istintiva propensione al gioco e allo scherzo: il suo humour maschera una disperazione sacra.
Nella primavera 1946 è colpito dalla scomunica specialissimo modo. Un anno dopo, con Aldo Capitini, fonda il Movimento di Religione che mobilita marce per la pace e tenta di incanalare le speranze dei giovani più affamati di cambiamento. Tiene discorsi anticattolici ma sempre tesi a un rinnovamento religioso. Nell’ottobre 1949, in disaccordo con Capitini, ritiene «conchiuso l’esperimento iniziale e provvisorio del Movimento di Religione». La «novità nuova» a cui si sente chiamato, è la «novità pura e totale oltre questa realtà, irrealtà, soprarealtà», «oltre teismo e ateismo, oltre la cupola troppo facile del divino». La novità è oltre tutti i valori che hanno contrassegnato finora il mondo, oltre «le soluzioni precedenti, tradizionali, della trascendenza e storicistica immanentistica»: un «puro irriferito» che non può essere definito, ma solamente trovato per via negativa e che appare troppo assoluto per essere condiviso. Negli anni ‘50, nella villa di Mezzacosta a Poggio Imperiale, crea il «Centro per la realtà nuova», finalizzato a inventare e costruire «una Realtà integralmente Nuova che non abbia più nulla in comune con nessuna realtà data o possibile e con nessun rinnovamento di questa». L’annuncio resta un grido nell’abisso della desolazione. Negli ultimi anni della sua vita considera le possibilità di una riconciliazione con la Chiesa, soprattutto a partire dal 1976, anno in cui sopraggiunge la malattia. La sua morte, accaduta il 24 giugno 1988, passa quasi inosservata, come l’ultimo ventennio di vita, trascorso in solitario ritiro, continuando a scrivere fino all’ultimo giorno.
Adriano Marchetti