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Il mio povero gerundio ho consumato
come l'utensile reso dal campo
roso dal tempo, rugginosa lama 
persa tra zolla e zolla, lavorando.



D'un velo candídissimo adornata

t'ho reso nuda, triste pifferaia,
d'estetica talmente, e cosi nuova,
che sembri tutta bozze di vecchiaia.

Ma se qualcuno bacia le tue piaghe
sorridi pura e snella chiaramente,
immagine nel cuore sigillata.


Ho sempre scritto sotto dettatura
tra poca luce in queste quattro mura:
ho quasi terminato la scrittura.

Un tocco fuori squilla all'aria pura.
S'apre di corsa il folto dei pensieri.
Volano lieti i segni bianchi e neri.


A lungo sono stato a capo chino.
Leggevo assorto accanto al finestrino.
Una frenata. Ho smesso di ascoltare.

La luce sui sedili era cambiata.
Era cambiata forse molte volte
la compagnia e fuor dal finestrino

se ne stava un paese tutto nuovo
una stazione fredda si svegliava
e nuovo un trapestio ad altri noto.


Ho cominciato a scrivere dalla fine.
Per l'impazienza. Per sciogliere l'enigma
Ma presto un'altra riga dopo l'ultima
penultima è venuta ed ho capito.

A ritroso scrivevo come un gambero
che cerca la sua tana e s'allontana.

Riga interrotta rotta non tracciata
fuori dal tempo dallo spazio uscita
pulviscolo impazzito raggio estremo...

corri su e giù con me sull'altalena
tra l'ansia del respiro e la sua pena.


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