Il libro liberato
“Liber libertus, libro liberato”: così esordiva il nostro autore in un capi-
tolo di Pulizia, annunciando il libro successivo. Il libro diventava da oggetto
soggetto comeuno schiavo liberato (la latinità classicaè sempreper Caramella
dietro le quinte). scriveva: “Adesso il libro è libero e forse anche l’autore. Non
gl’importa più di pubblicarlo, e nemmeno di scriverlo”. Per aggiungere subito
con serio ammiccamento: “Tutte storie. se volete sapere cosa penso in pro-
posito, finirà per tentare. Chi rinuncia al desiderio di capire e di essere
capito?”. E riconosciamo, oltre al solito serio gioco dello sdoppiamento del-
l’io (altrove in Pulizia l’io è addirittura triplicato con tre nomi e cognomi), il
ben noto procedere per rovesciamenti, per successive smentite.
Questa è una delle libertà che l’autore rivendica legittimamente per sé
tra le altre che cercheremo di scoprire, una libertà che è non solo concessa
ma auspicata nella regione della poesia: l’ossimoro è proprio la via poetica
per scoprire e dire verità.
“Forse si può parlare di libro aperto”, prosegue l’autore, “La liberazione
può consistere in ciò che, se liberato, il libro è autorizzato, libero com’è, a
non concludersi mai: scritto o non scritto che sia”. Quest’ultima notazione,
che considera l’ipotesi di un libro “non scritto” riporta, in certo senso, il libro,
in grembo all’autore e riporta in primo piano, come è giusto, l’io-autore,
momentaneamente allontanato (con l’avallo di una critica che ha messo per
decenni al bando l’autore). Comprendiamo che la libertà più vera tende, al
contrario, a difendere e a salvare dalla finitezza quell’io che è inequivocabil-
mente al centro della ricerca umana e poetica di Alberto Caramella.
Mi fermo subito sulle ultime parole del primo capitolo: “il libro liberato
è un libro senza fine” parole che riecheggeranno più volte nel grande libro che qui cerchiamo di capire: “E se questa durasse intera sera / e l’ultimo dell’anno
/ si unisse al primo giorno senza fine // e gioia ed amicizia la vincessero / con-
tro l’orrenda Pizia?”; e, altrove, “L’arte difficile dell’invecchiare / carezza l’o-
pera che non vuol finire”. Ancora: “Che cosa amabile / soffrire la stanchezza
/ lasciarsi riposare. / Vanno insalutati / i resti del pensiero / Che farò? / Un
movimento circolare / se stesso leggerà / non per finire / né per cominciare.
/ La ruota ipotizzata / ricalcando incide, / cose note per me. / oh, mia poe-
sia, ho te. / si riesce a vedere, Madre sole, / quando tramonta”. L’ipotesi che
salverebbe dal pensiero dell’invecchiamento e della morte è forse qui quella
dell’eterno ritorno? Ho voluto citare per intero il testo per preannunciare altre
due vie di salvezza che ricompariranno in questo discorso: “lasciarsi riposare”
e, in fine, “oh, mia poesia, ho te”.
La libertà cercata è dunque anzitutto libertà dalla temporalità, o
almeno dalla coscienza della temporalità e della fine. Tutta la complessa,
multiforme vicenda interiore che trova voce poetica nell’opera di Caramella
e riappare nell’ultimo libro, quasi in un carosello finale (che non vuol
essere finale) si concentra intorno a questa lotta contro il tempo. Il nostro
poeta anche nella vita aveva la tempra del lottatore, conciliava anzi in sé i
due opposti di schopenhauer: «contemplante» e «lottatore». Non dob-
biamo perciò credere alle sue momentanee rese strategiche. Lotta “perché
beffata morte muoia”.
Le strategie sono molte e a ognuna corrisponde nella poesia un tim-
bro e un tono diverso: violento, tenero, spregiudicatamente ma mai vol-
garmente realistico, idillico, incantato e sospeso, beffardo o sottilmente iro-
nico, ansioso, trepido, elegiaco, meditativo, qualche volta epigrammatico.
La più caratteristica, a volte addirittura bizzarra, di queste strategie
(più che vie di fuga) è il «rovesciamento», un espediente, forse una favola
seriamente giocosa (ma non comica come penserebbe Bachtin), adottato
fin dalla prima raccolta dove si immaginava tra l’altro un sole sorgente a
occidente. (Possiamo avvertire qui, tra parentesi, che questo tono tra il
serio, l’ironico, il fantasioso, così sfumato e difficile da definire è molto par-
ticolare e connota molta parte della poesia di Caramella).
Qui leggiamo, per esempio: “Quando l’implosione / sarà perfezionata
/ la nascita sarà / dalla vecchiaia”. “In questo labirinto / l’inizio non ha fine.
/ Ci sono entrato. / Come posso smentire il calendario?”. oppure: “Cretta
il tempo all’indietro. Al futuro manca l’alea […]. La fine è dentro te”. E,
anche in questo libro, “un sole rosso e blu” che “con meraviglia giunge in
calo ad est” (ma solo perché riflesso in uno specchio).
si sarebbe tentati di trovare una analoga funzione di sfida al tempo,
alla diacronia, in certe audaci, un po’ strane, inversioni sintattiche. Come:
“lunga e stretta di tavoli a una fila”; o “Che non hanno imparato a dir di sì
/ si impermaliscono adulti riottosi”. E, addirittura: “Di pochi ricchi, ster-
minati poveri / scoppiate ognuna per principi nobili, / l’oro che il ferro e la
giustizia fonde / con poche guerre prese il mondo intero”: “scoppiate” ha
aspettato per due versi il suo termine di riferimento, “guerre” (meno pen-
sabile una nostalgia del latino, anche se conosciuto, amato e tradotto in
questo stesso libro da Caramella?).
All’amara coscienza della temporalità viene talvolta contrapposta l’a-
nimalità più elementare e inconsapevole. Ma gli animali che il poeta con-
templa e a cui rende omaggio specialmente nella sezione Frutti sono per lo
più animali intelligenti, di un’ intelligenza, però, che accetta la legge di
natura, come vorrebbe poter fare Alberto: per non dire dello splendido
giaguaro, gatti soprattutto, ma anche il “polpo intelligente”, la stessa “iena
/ coraggiosa veloce intraprendente” (incontriamo una delle tipiche triadi
scandite nel verso di Caramella), e la “mosca intelligente”. Non il rospo che
“regna” “nella palude” fetida e stagnante. È una stasi, quella delle paludi e
perfino della laguna di Venezia, che richiama la morte. E il nostro poeta che
odia il tempo ama tuttavia la vita dinamica e pulsante. Una antinomia? Chi
più di lui se la può concedere? Di lui che ha fatto dell’ossimoro un emblema
nella bandiera della sua «libertà»? Dopo aver notato, in margine, che nella
sezione Frutti un criterio un po’ maschilista affianca agli animali certe allet-
tanti immagini femminili viste come puri oggetti sessuali, cerchiamo altri
momenti. salta agli occhi la continua, variata successione di flash sulla vita
e sul mondo tale che una superficiale lettura potrebbe fermarsi al suggestivo
caleidoscopio di panorami esteriori fissati da un obiettivo quanto mai libero
e mobile. Ma noi ormai sappiamo che bisogna tendere al panorama inte-
riore, a quella «controversia» (per usare una parola luziana adottata già da
Luti nella prefazione al primo libro di Caramella, Mille scuse per esistere), tra tempo ed eternità, tra molteplice e Uno, tra metamorfosi e durata, termini
inconciliabili nella prospettiva razionale del poeta ma al tempo stesso irri-
nunciabili. Quei flash vogliono essere per lo più momenti di riposo con-
templativo al riparo dall’assillo del pensiero (ricordiamo “Che cosa amabile
/ soffrire la stanchezza / lasciarsi riposare”); in essi l’occhio si prepara a pas-
sare dalla dimensione prevalentemente sensuale, o sensoriale, di quelli che
prendono il nome di «frutti» ai più aerei «fiori» dell’altra sezione Fiori
occupata da immagini lievi e luminose di bambini (i nipotini) e di alberi
sentiti quasi come geni protettivi, dal cipresso all’oleandro, alla gigantesca
sequoia, all’olivone oggetto di un bellissimo rito di rinascita, all’albero di
Natale che concilia natura, infanzia, favola.
Anche questo universo infantile e naturale appaga il mito primordiale
dello stato originario visto come una dimensione quasi metatemporale in
contrapposizione con quella che in Pulizia è indicata come “l’acqua sporca
storica”, la grande storia dominata dalla violenza, dalla sopraffazione per
“l’orrendo potere” e per l’oro, dalla guerra: una prospettiva cui è negata
ogni machiavellica epicità in quanto sembra non lasciare spazio alla «virtù»
ma solo a una «fortuna» degradata a caso spicciolo: le grandi svolte storiche
nascono da occasioni in sé casuali come il legame di Ezio con Attila con cui
era stato allevato, legame che indusse il generale romano “a lasciare / lo
scampo al nemico”. “Popoli e stirpi avrebbero scambiato / le sorti. Presi altri
destini”; o la “caduta di san Paolo”.
La stessa infanzia del poeta evocata spesso con mal celato pathos è
memoria trasfigurata in mito per sfidare il tempo.
Un non sgradito riposo è concesso talvolta dai borghesi conforti
offerti dalla situazione agiata che consente il buon ristorante, l’hotel raffi-
nato, beni non disdegnati anche perché a un certo livello permettono di
dimenticare per un momento il brutto ipermercato della civiltà dei con-
sumi. Basta però spesso un semplice profumato caffè (come nel capitolo
iniziale di Pulizia intitolato allegramente La posta del mattino arriva col
caffè) o “la bagatella del sigaro”. L’evocazione di questi momenti ha un velo
d’ironia quasi serena. Più malinconica, sul piano delle «minuzie» della
quotidianità minima («minuzie» è significativa parola di questo autore non minimalista) è la registrazione di certi abituali riti propri dell’età
avanzata e depotenziata: “bevendo ho spillolato aperto il bagno / e guardo
sperso”.
Ma qui, con questa immagine di smarrimento, già ci affacciamo sul-
l’altro versante o meglio sulla voragine sempre spalancata in margine alle
strade finora percorse. Devo riconoscere a questo punto che ho abusiva-
mente tentato di fare ordine (un ordine del genere l’autore proprio non lo
vuole), parlando in primo luogo della pars construens rimandando la pur
rilevante pars destruens. C’è una poesia di tono epigrafico in cui la sfida al
tempo si esprime proprio nella volontà di gettarsi nella voragine del nulla
rinunciando alle altre vie di scampo: memoria, immagini, “compagnia”. “Il
tempo vada dove suole e deve. / socchiudi la memoria. Chiudi gli occhi. /
Quando si può tagliare / (taglia) il filo del telefono / chiudere l’album /
(chiudi) / o spengere ogni immagine / (spengi). / E vada il tempo come
suole e deve / morto ammazzato come deve e suole.” (nel chiasmo un altro
rovesciamento vagamente ironico).
Le due parti (construens e destruens) si presentano in realtà in conti-
nua, quasi ossessiva, alternanza: le varie poesie alternano finali che defini-
rei in ascesa a finali, per altro prevalenti, in calata, spesso precipitosa, al
grado zero dell’insignificanza e della banalità, specialmente nella sezione
Emistichi che nella brevità dei componimenti mette in particolare evi-
denza la vocazione epigrammatica dell’autore. Da quella frizione dei con-
trari prende vita e senso tutta l’opera di Caramella.
Quel caleidoscopico universo di immagini, proprio come avviene
nel caleidoscopio, è contrassegnato dalla «sparizione». se potessimo disporre
di concordanze troveremmo registrata con particolare frequenza l’area
semantica dello sparire. Il sogno è effimero perfino là dove prevale la
dimensione più alta e insieme più tenera, che vorrei definire, se la parola si
addicesse alla visione del mondo di Caramella, più spirituale e più aperta
al sogno dell’infinito, quella cioè della sezione Fiori dove la vita perde il suo
peso e si esprime in colori (sbiadire è un po’ morire), in profumi e in voli.
I passeri spariscono “in volo senza traccia”, “flotte sparite senza pensiero”;
è il poeta stesso a tentare il volo ma “con ali di formica”: “se mille cose
strane fuori cantano / con ali di formica tento il volo” (questa sarebbe la desiderata traiettoria: pulizia libertà volo). Il suo volo è il volo della poesia.
Ecco, entra in scena un po’ tardi come gli attori più importanti la Poesia
(con la maiuscola anche se qui le si attribuiscono “ali di formica”). La
poesia appena intravista “oh, mia poesia, ho te!” nel primo testo citato e
letto che finiva in volo e in gloria è in realtà il grande tema della poesia di
Caramella: poesia sulla poesia: metapoesia si direbbe oggi. Nel grembo della
poesia tutto il suo universo si raccoglie e cerca consistenza, compiutezza,
unità, durata. Ma proprio intorno al tema della poesia, che è la prima e l’ul-
tima arma della sua epica battaglia contro il tempo e il nulla, si svolge la più
drammatica alternanza di speranza e disillusione, di tensione verso una per-
petuazione dell’io e del suo ricco universo e di ricaduta amara nel timore
addirittura di non esistere (ricordiamo Mille scuse per esistere e il capitano
Nemo; qui troviamo ancora un io che da una parte si attribuisce identità
multiple, dall’altra si presenta come Nessuno).
Alla poesia sarebbe affidato il compito di fissare la mobile realtà,
pure amata per il suo incessante moto. Formalmente anche la ripetizione
fonica, l’allitterazione, le vere o false figure etimologiche a cominciare da
Il libro liberato, le iterazioni continue vogliono sfidare la frammentarietà in
nome della continuità, dell’unità, tentando in fondo di conciliare uno e
molteplice. (Riprendiamo, per il sogno di continuità e di durata quei versi
sul Capodanno in cui col conforto di iterazioni foniche il poeta si augurava
“E se questa durasse intera sera”).
Molto aperto e interessato alle conquiste della scienza attuale e in par-
ticolare della fisica, l’autore non può fondare una vera speranza di immor-
talità metafisica e anche l’immanente ma spirituale Uno di Plotino cui si
richiama nella sua importante prefazione Dante Maffia si presenta solo
come un sogno impossibile, una favola cui bruscamente il poeta si sottrae
(“E basti con l’idea d’esser l’Uno”). In un bel testo da Totali a riportare
(titolo che corrisponde a «concludere senza finire») l’io, scoprendosi pro-
tagonista ma solo di un sogno sente con angoscia l’inconsistenza dell’in-
dividuale presunta assolutezza: “Protagonista l’io: sempre, e nel sogno. /
Come non disperare? / Calmo, sii calmo, se ti attende il niente./ La fan-
ciullesca sete della gloria / finisce qui”. Una pietra tombale dunque, in que-
sto momento di doloroso risveglio anche per la speranza in una temporanea sopravvivenza nella memoria dei posteri attraverso la poesia. Tuttavia
il richiamo al suo orazio, cui l’autore dedica tra l’altro bellissime tradu-
zioni, ripropone la poco convinta rassegnazione dell’io effimero che esce
dalla vita come dal banchetto il convitato sazio, ma anche il trionfale
Exegi monumentum aere perennius.
Il poeta moderno sembra più turbato dal timore del nulla, anzi del
più degradato niente, ma anche il poeta latino confessava l’esperienza di
una sorta di alienazione, di inquietudine esistenziale nella famosa lettera a
Celso Albinovano Romae Tibur amem ventosum Tibure Romam?
Dobbiamo ricordare in conclusione un semplice principio molte
volte dimenticato nell’esegesi critica: che nel discorso poetico, a differenza
del discorso filosofico, anche l’oggetto che la ragione dichiara dolorosa-
mente impossibile, si fa presente, colorisce e impressiona di sé la parola
conferendole una particolare vibrazione. Quanta contenuta nostalgia nelle
parole rivolte all’amico Emerico: “L’eternità tu speri.”
Nel caso di questa poesia anche l’impossibile Eternità, l’impossibile
Libertà (“priva di scelta / la libertà”) va inclusa nei “totali a riportare”.