Intersezioni
Nel pubblicare i due volumi di IP prima e sM poi, Alberto Caramella
ha voluto dare una lettura trasversale della sua opera: il suo intento, cioè, è
stato quello di porre all’attenzione del lettore alcune tematiche, a lui par-
ticolarmente care, che ricorrono nelle sue liriche; un’operazione seguita
anche dalle due curatrici di Inseguendo la bellezza e L’anima e la memoria. 1
Ebbene, la presente relazione vuol porsi nel solco di queste letture: si pro-
pone cioè di indagare alcuni dei temi caratterizzanti la sua poesia. E lo farà
attraverso dei barlumi, dei brevi, fugaci, lampi al magnesio.
1. L’ oRTo DEL CoNTADINo
Arte allusiva
“Chi rilegge Leopardi nella sera? / La sera era il suo senso misurato. /
Chi s’intrica in un bosco di poesia? / L’anima pensosa si spaura / che
penetra lo sguardo e tutto ottura / la ragnatela sottile che cattura / dove
ogni moto porge, così pura, / il ventre molle che avvolge oscura mura /
voglio tornare libero volare / fuggire da quel gorgo trasparente / che d’un
poeta ogni poeta mente / urge la voce. osare. L’onda mesce / nel fragore del
libro che rinserra. / Che ricresce. // Chi rilegge Leopardi nella sera?”
Il componimento è un invito rivolto al lettore affinché scopra i mol-
teplici sensi della poesia, a fraintenderne il dettato, così che possa rinascere
e rivivere. se è vero infatti che nessuna lettura circoscrive definitivamente i
significati di un’opera, allora il lettore dovrà farsi wildianamente artista e sco-
prire nuovi sensi. Rispondere all’interrogazione della poesia, infatti, significa
rigenerare, risvegliare dal silenzio, l’atto dell’artista-artigiano. 2 Questa lirica, inoltre, permettere di comprendere appieno il modo di lavorare di C., che
parte da una tradizione per poi infrangerla. 3 La tradizione, in questo caso, è
rappresentata da Leopardi, come suggerisce il verso d’apertura. Non casual-
mente si indica come spazio temporale la sera: non solo perché la composi-
zione poetica caramelliana avviene durante la notte, 4 ma perché la parola leo-
pardiana muove dal notturno, in quanto la notte (o la sera), nascondendo gli
oggetti, fa sì che l’animo non ne concepisca che un’immagine vaga e indi-
stinta. E la sera, ci dice C., è propizia al necessario fraintendimento della poe-
sia. se il v. 4 recita: «L’anima pensosa si spaura» è chiaro che il poeta ha in
mente A Silvia, 5-6: ‘E tu, lieta e pensosa, il limitare / Di gioventù salivi’ e
L’infinito, 8: ‘Il cor non si spaura’. E proprio a quest’ultimo componimento,
la lirica di C. sembra rifarsi a livello metrico: per il numero dei versi (quin-
dici) e per i numerosi enjambements (ai vv. 4-6; 9-13). sin qui la tradi-
zione. Vediamo, adesso, l’infrazione. se L’infinito è strutturato in endecasil-
labi sciolti, 5 la poesia caramelliana è invece composta da una strofa di versi
liberi (in prevalenza endecasillabi), più un endecasillabo isolato che chiude,
e dove sono abbondanti le rime. 6 Ecco insomma l’insoluto contrasto, l’ossi-
moro permanente che sempre percorre, consapevolmente, la poesia di C. Il
modo è riconoscibile anche in Classico sonetto (MsE): “Ho cominciato a scri-
vere dalla fine. / Per l’impazienza. Per sciogliere l’enigma. / Ma presto un’altra riga dopo l’ultima / penultima è venuta ed ho capito. // A ritroso
scrivevo come un gambero / che cerca la sua tana e s’allontana. // Riga
interrotta rotta non tracciata / fuori dal tempo dallo spazio uscita / pulvi-
scolo impazzito raggio estremo… // corri su e giù con me sull’altalena / tra
l’ansia del respiro e la sua pena.” 7
si tratta di capire perché la poesia venga definita Classico sonetto se del
sonetto non si conserva l’aspetto formale. Ad esso fa pensare l’uso dell’en-
decasillabo (con le eccezioni dei vv. 1-2) ed il fatto che la prima strofa sia
una quartina, una terzina la terza. È come se questa struttura partisse dal
sonetto consueto per disgregarlo e frantumarlo. D’altra parte, l’innovazione
è dichiaratamente fatta presente ai vv. 1-2, eccedenti di una sillaba rispetto
alla misura endecasillabica. si tratta, questo, di un fenomeno che Pin-
chera definisce ipertrofia ritmica, cioè ‘l’alterazione di un ritmo mediante
l’inclusione (si potrebbe dire l’innesto) di una sillaba in più, quasi una sil-
laba in sovrannumero’. 8 In effetti, per recuperare la misura canonica, baste-
rebbe espungere le vocali finali di «scrivere» e di «sciogliere»: «Ho comin-
ciato a scriver dalla fine» (endecasillabo con accenti di 6 a -10 a ); «Per
l’impazienza. Per scioglier l’enigma» (endecasillabo con accenti di 4 a -7 a -
10 a ). Insomma, si tratta di partire da un modello letterario (dalla fine), per
rivisitarlo, è necessario operare su un archetipo per introdurre se stessi. In
fondo, la letteratura è un discorso «convenzionale» che richiede raramente
una totale originalità, visto che il rapporto dell’autore con altri testi, in una
dimensione dialogica, è indispensabile.Tutto ciò è reso visivamente da C.
con il moto di un gambero che guarda indietro e pur procede avanti e con
l’ondeggiare alterno di un’altalena.
In un’intervista di molti anni fa, C., rispondendo alla domanda su
quali fossero le esperienze poetiche che l’avevano sollecitato nel profondo, dichiarava: “[…] i miei antichi maestri sono l’Iliade, l’Odissea, orazio,
Catullo, Dante, Petrarca, maestro dolcissimo. E poi, i maestri di ieri, Pascoli,
Carducci, D’Annunzio e tutti i contemporanei, tra i quali Campana, Mon-
tale, Ungaretti, Quasimodo: disordinatamente, ma con attenzione.”
E poi aggiungeva, precisando: “[…] ormai prevale il lavoro in verticale:
la ricerca, l’interrogazione, l’introspezione del mistero” 9 a sottolineare la realtà
della voce propria. Il concetto ricorre anche in Libera uscita (MsE): “Ho
semprescrittosottodettatura/trapocaluceinquestequattromura:/hoquasi
terminato la scrittura. // Un tocco fuori squilla all’aria pura. / s’apre di corsa
il folto dei pensieri. / Volano lieti i segni bianchi e neri.”
Inquestestrofe,sedaunlatosiribadiscel’originedivinadell’attopoetico, 10
dall’altrolasuaindipendenzaeoriginalità.Questoèl’ortodelpoeta-contadino 11 per usare un’immagine cara a C., 12 cioè «un tesoro universale nel quale il
poeta non può non attingere per raccogliere di tanto in tanto una moneta
lucente che egli sperpera facendone brillare la luce». 13 Ancora in (Hapax), in
IP, si ribadisce l’unicità della poesia: “Di questa parola / di questa espressione
/ è documentato / solo un esempio.”
Tuttavia, è altresì vero che il titolo è posto tra parentesi, quasi un
aggiustamento del tiro, volendo esprimere un dubbio, un’incertezza: il
retaggio del passato. 14
Ad ogni modo, nel tempo il poeta, forse più sicuro di sé, ha posto
l’accento più sull’originalità che sulla tradizione, servendosi anche di una
citazione omerica usata per primo da Carmelo Mezzasalma che commen-
tava il volume VN: ‘Femio, afferrato alle ginocchia di odisseo che implo-
rava per aver salva la vita, come fu, nel momento della verità disse di sé: “da
solo imparai l’arte, un dio tutti i canti m’ispirò nel cuore (Odissea XXII,
347-48 […]). Afferma l’assoluta originalità di ogni poeta. Anche se oggi
tutti vogliono cercare per ciascuno i maestri e le origini culturali, talvolta
miseramente forzando testi e personalità. Nessuno proprio nessuno può
prestare ad un poeta la poesia. Il poeta la fa per definizione. All’estremo orgoglio affianca però l’estrema umiltà. Il poeta è soltanto la voce del dio,
la voce che canta.’ 15
È un’immagine particolarmente gradita a C., poiché ricorre anche in
uno dei suoi ultimi scritti: “Al poeta si pone ancora oggi l’inevitabile
domanda di che cosa o chi lo spinga a prendere la penna in mano. omero
dette la sua risposta per bocca di Femio che disse di sé: ‘Io fui e sono un
autodidatta, nessuno mi insegnò l’arte ma un Dio tutti i canti mi ispirò nel
cuore’ (Odissea, XXII 347-48). […] Dunque si deve essere cauti a cercare
di attribuire un maestro, per il poeta conta la nativa libertà e la nativa ori-
ginalità, perché nessuno può dare ad altri la poesia o il modo di farla, a
rigore parlando.” 16
2. D ANZA DI PARoLE
De la musique avant toute chose
Qualche anno fa a proposito delle sue composizioni, C. commentava:
“Le parole sono pietre costruite ed intrinsecamente articolate: possono e
debbono a loro volta disporsi seguendo il ritmo e la musica interna del
verso e, più in generale, dell’intera composizione”. 17 È un pensiero in cui
spicca, oltre l’analogia con l’opera artigianale, dato che la poesia è vista nella
concretezza dell’assemblaggio, come processo aggregativo di materiali, 18
l’accenno al ritmo e alla musica, essenziali al canto. Di seguito si cercherà
di illustrare il gusto fonico sensibilissimo di C., senza pretendere di darne
un’analisi esaustiva. Una lirica compresa in sM recita: “Il mare tocca roco sulla riva / con un respiro acciottolato lungo / che tronco libera / un
liquido fruscìo alla risacca // e sembra un’altalena che s’avvia / e torna a
ristormire.”
si tratta quasi di un frammento naturalistico, un impressionismo di
origine pascoliana, visto che C. ha uno sguardo in presa diretta con le cose:
non vi è spazio per spunti riflessivi o elaborazioni interpretative.Tuttavia,
l’elemento davvero caratterizzante è il magnete sonoro che sembra preva-
lere su quello semantico. Come ha scritto Zucchi: ‘sorprendente il flusso
delle allitterazioni, delle onomatopee sapientemente affidate agli accenti
principali dei versi. sintetico di senso e suono è quel “respiro acciottolato”,
cui l’intima cupezza di “lungo” aggiunge vita e mistero; e poi il brusco qui-
nario sdrucciolo “che tronco libera”, seguito da un endecasillabo “un liquido
fruscìo alla risacca”: sonoramente, questi tre versi imitano a meraviglia,
altresì caricandosi di ipnotica enigmaticità, l’andirivieni del mare sulla bat-
tigia, antichissimo di suggestioni ed eterno di domande senza risposta.’ 19
Inoltre, tutti i versi sono strutturati su enjambements che sono la
normale soluzione del passaggio da verso a verso e da strofa a strofa,
ampliando e distendendo il ritmo, quasi che le onde si adagiassero lievi
sulla rena. In chiusura, spicca il verbo ristormire, generalmente riferito a
foglie, rami o vento ma che qua vuol connotare di volatilità l’altalena.
si veda ancora la poesia intitolata Il duomo di Molfetta (sM): “Moneta
antica consunta dal mare / il duomo di Molfetta dove appare // su levigati
ciottoli / scandisce la sua musica / che lenta approda con languore 20 al
mare.”
C. si diletta in una ricerca fonica virtuosistica: il ritmo ben scandito,
accentuato anche dal tempo forte iniziale di 2 a del sonante endecasillabo dattilico con cui si apre la lirica, è accompagnato dalla rima baciata dei vv.
1-2 (mare: appare), dalla paronomasia Moneta-Molfetta, quasi una varia-
zione fonetica dello stesso termine, e dall’allitterazione marginale al v. 1
(«Moneta… mare») che salda il verso. In chiusura, il lento endecasillabo di
4 a -8 a -10 a e il plesso armonico basato sul lambdacismo («lenta… languore
al») vogliono sottolineare la calma e la serenità della visione. significativa-
mente, inoltre, la poesia si conclude con la parola-rima mare con cui si era
aperta, quasi a mimare il lento ritorno e lo sciabordio delle onde. È,
insomma, un vedere che trasmuta nell’udire, un tripudio fonosimbolico in
perfetta intonazione con i significati, volendo salutare il miracolo della
musica sacra che fa tutt’uno con quella del mare, entrambe apportatrici di
pace e serenità.
3. UN PANINo CoN PoCA sENAPE
Il Verso è tutto
In una poesia di sM, l’autore mostra bene la sua fede nella poesia:
“Cercavo tra le righe il mare / e non guardavo il mare. / Com’è sembrato
spento / quand’ho guardato! / Così reale.”
È il tema, tradizionale, della superiorità dell’arte sulla vita 21 e non è un
caso che la contemplazione e la folgorazione avvengano davanti al mare che
rappresenta oltre la spazialità, il mutamento, elemento inalienabile della
nostra esistenza. Dall’altra parte (dalla parte della poesia), invece, si hanno
lo spazio puro e l’immobilità assoluta ed eterna. Tutto ciò è rimarcato dal
lessico e dalla sintassi: la lirica è, infatti, costituita prevalentemente da
principali, da coordinate e da ripetizioni. 22 se la subordinazione implica un
movimento temporale, la coordinazione, invece, giustapponendo le proposizioni, abolisce il tempo; se poi ciò che è calato nella vita è soggetto al
mutamento, ciò che evade dal tempo deve disporsi in una dimensione ripe-
titiva, sempre uguale a se stessa. In un altro componimento, intitolato
Dizionarietto gnoseologico (MsE), si legge: “Altissima respira la poesia. /
Innocente felice e pura // incorpora d’ogni sapere / la categoria.”
In evidenza, in un solenne endecasillabo di 6 a -10 a , è il superlativo in
apertura, così come l’inarcatura interstrofica che esalta la purezza dell’atto
artistico, e l’accordo rimico poesia: categoria, che non solo agglutina i due
distici, come d’altra parte la consonanza puRa: sapeRe e l’enjambement
interstrofico, ma enfatizza il fatto che l’unica conoscenza umana è deter-
minata dalla categoria poetica. Vivere per la poesia, vivere nella poesia: per
C. la scrittura è stata una scommessa essenziale che ha chiamato in causa
tutto il suo essere così come la totalità del destino collettivo; il suo verso è
stato presenza, passione e sguardo integrale sul mondo.
4. L E RAGIoNI DELLA PoEsIA
Cogito ergo cum
Nell’intervista a Ida Boni, C. metteva in luce il suo essere un cercatore
affamato e inarreso davanti al fatto poetico: “[in MsE oltre cento testi] sono
dedicati al «perché» al «che cos’è» al «come» del mio scrivere poesia: testi-
monianza numericamente non comune dell’inesauribile curiosità che ancora
mi anima e di quella precisa «consolazione» rappresentata dalla scrittura.” 23
Questa continua interrogazione lo ha portato a una molteplicità di
sentimenti e di toni. In un componimento appartenente a IP, in cui il det-
tato è patemizzato per la frammentazione determinata dal punto definito-
rio, scriveva: “Della mia vita / ho fatto un’Arte. // Prendetene tutti. / È fatta
per Voi.”
se il primo distico riecheggia posizioni dell’estetismo ottocentesco
(fare della vita un’opera d’arte, vivere cioè nel culto esasperato della bellezza), cade tuttavia l’idea di vivere immolati a ciò che è raffinato, eccen-
trico, esotico, mentre permane l’idea di architettare e poetare bellezza. 24 I
versi finali specificano che la poesia oltre che un fatto estetico è anche un
fatto etico, pane da spezzare con l’Altro. Ed è per questa necessaria condi-
visione, oltre che per scambiare esperienze, che tramite la Fondazione il
Fiore sono stati invitati scrittori della più svariata provenienza, da Adonis
a strand, daTrotzig a Walcott. In C., cioè, la composizione della poesia si
è sempre accompagnata a un necessario banchetto: “Apparecchiate stoviglie
diverse / al desco attendono, alla compagnia // Le vite accanto libere e
distinte” (L’invito, 11-13, in MsE).
In un altro componimento, Contraggenio (MsE), l’autore scriveva che
all’intima ripugnanza di pubblicare, era subentrata nel tempo la volontà di
non morire del tutto: “Ciò che non volevo / la bara del pensiero. // Cam-
biavo e ricambiavo ed era viva / la riga mia. // Ed ora invece / per non
morire un poco // bisogna pur morire. / Bisogna pubblicare.”
E sarà inoltre da notare, oltre l’impiego di versi brevi, il fatto che i
distici sono tenuti insieme dall’anafora (vv. 7-8), dalla ribattitura fonica
determinata dall’assonanza (vv. 1-2: volEvo: pensiEro e vv. 3-4: vIvA:
mIA) e dagli enjambements. Più tardi, così spiegava il significato del
componimento all’amico Carmelo Mezzasalma: “La compagnia che le
mie righe (così chiamo la mia poesia) mi tenevano, fatte e sfatte per così
dire di continuo, vive finché le potevo cambiare, e poi pubblicate e dive-
nute morte per non morire un poco, quando questa compagnia, piano
piano, ha esaurito il cambiamento e le righe tornavano (talvolta ritorna-
vano) tali e quali, allora, vicino alla libertà, ho preso coraggio, o forse
sventatezza.” 25
È un concetto che si ritrova nell’intervista a Ida Boni: “si è dunque
risvegliato anche in me l’impulso a non morire del tutto – non omnis
moriar. Il diario singhiozzante di tutta una vita, consegnato alle righe salvagente prese e riprese senza nessuna intenzione di pubblicare, si è così
dovuto manifestare: unito allo spazio concluso di una labile fortezza.” 26
La pubblicazione nasce, insomma, anche per lasciare un monumento di
sé: tuttavia, non c’è come in orazio l’orgoglio altisonante, la proclamazione
ad alta voce della soddisfazione per la propria immortalità. In fondo, C.
chiama, con la consueta diminutio sui, i suoi versi righe: più che a un «monu-
mentum aere perennius», parlerei, crepuscolarmente, di «bava di lumaca».
Il miracolo della poesia, però, può anche consistere nel rischiarare le
incerte esistenze, in un dire per ritrovarsi, come mostra il seguente fram-
mento: “ognuno di noi è incompiuto, almeno nel senso che non ha potuto
imboccare i destini alternativi che il libero arbitrio appresta a ciascuno:
lasciando intatto, e perfetto, il disegno immutabile dell’universo. Poesia
come / compimento.” 27
La scrittura, insomma, è realizzazione della potenzialità della forma,
dei destini alternativi, della realizzazione di sé. 28 È quello che si afferma
anche in una lirica composta appositamente per IP: “Perché poesia? E l’oboe
perché? / Il flauto la tromba il clarinetto / perché il violino, la viola d’amore
/ e i timpani i piatti ed i triangoli? / Perché l’orchestra tutta, al direttore? /
ognuno cerca un suono, uno strumento. / Anch’io dirigo un’orchestra
maestosa, / di mille voci fuse e distintissime / che si registrano in unico
nome.”
A un io fatto a pezzi, divenuto puro suono, C. contrappone la possi-
bilità di una residua identità perché il poeta può come un direttore d’or-
chestra, armonizzare le voci libere e distinte che lo affollano, può ricomporre
i frammenti in una voce più forte e complessa. Tutto ciò è sottolineato a livello formale: la ripetitività ritmico-struttiva esprime l’incalzare delle
domande (il rovello della coscienza), mentre lo sdrucciolo al penultimo verso
acuisce il centro di gravità della parola, volendo con ciò affermare il «canto
ad una voce sola». 29
5. G RAFEMI
La ponctuation a sa philosophie comme le style
Nel valorizzare lo spazio tipografico, la vicenda poetica di A. C. non
accoglie né le sperimentazioni avanguardistiche dei primi del Novecento (i
cui esponenti, d’altra parte, erano spinti da ragioni ideologiche), né quelle
di autori come, ad esempio, Caproni, sanguineti o Zanzotto. È vero che
talvolta vengono accolte novità novecentesche come il conglobare il titolo
nella lirica, facendolo diventare parte sintatticamente necessaria del
discorso: « soNo / pietre per costruire» (Sono, in VN) 30 ed è altresì indubi-
tabile che, per valorizzare la componente grafico-visiva della scrittura, l’au-
tore alcune volte utilizzi la giacitura esposta a metà verso, o in punta di
verso, come in Sipario semichiuso (LM):
e rosseggiante scende ancora chiaro
dove
pacato insiste un limpido turchese.
o adoperi un segno matematico come la parentesi graffa (Per adeguare pro-
porzione e numero, in LL), o apra il verso mediante la dilatazione degli spazi
bianchi intra e interversali, come in Un teatro voltato in semicerchio (LL): 31 Già tutto in cielo
concluso sembra
e divorato il male.
ricchi
numinosi filtri
Cumuli di sole.
ma si tratta comunque di esperimenti isolati. La sua poesia, piuttosto, si
riallaccia a quella di Ungaretti, soprattutto nell’indecifrabile comunione di
parola e silenzio e nella scarnificazione del dettato che raggiunge l’apice
nella sezione Emistichi di LL. 32 Insomma, anche nell’organizzazione della
pagina e negli usi interpuntivi, C. innova, ma avendo sempre un saldo
senso della tradizione: è proprio in questa insoluta tensione che si deve tro-
vare la sua cifra stilistica. se il paradigma tràdito è guida sicura, la sua
devianza è espediente con il quale il poeta tenta di raffigurare, trasformando
gli assetti consueti, nuove armonie e nuovi godimenti; è, insomma, un
mezzo di ricerca filosofico-sapienziale. Nel paragrafo che segue si cerche-
ranno di mettere in luce alcuni usi interpuntivi caratterizzanti le sue prime
tre raccolte poetiche.
Uno dei segni di punteggiatura più usato è il punto definitorio che
talvolta viene impiegato con la funzione di segmentare unità sintattiche
coese, e accostare lo stesso lessema ripetuto, con l’effetto di patemizzare il
discorso: “Mi sono perduto in cerca di cose. / Di cose perdute. Qualcosa /
qualcosa è sfuggito. Un disagio.” (Riposi in pace la cara poesia, 1-3 in
MsE). Il punto fermo, assieme all’orchestrazione metrica, mette in rilievo
i costituenti frasali e al contempo, attraverso la frammentazione, rende il
dettato epigrafico: “Trovare ignoti accenti, / che rochi suonano / ineducati
svelti. Gli occhi brillano. / Lingua nuova gioiosa. // Fieri del giorno stanno
accanto ignari.” (L’indomani, 3-7, in VN) oppure: “Non so perché son stanco ma felice. / Non so perché la sete cresce ancora. / Non so perché io
viva ma pur vivo. // strana irridente carceriera ingiusta.” (Ex-sistere, in
VN). In generale, la scansione sintattica è più volte affidata dal poeta all’a
capo tipografico. È, insomma, con il passaggio da verso a verso, da strofa a
strofa che la scrittura di C. sottolinea le parole, isolandole e rendendole affi-
late e taglienti: “tentenna la noia / grigia / come la sparsa nube incombente”
(Nell’umido cielo piovigginoso, 2-4, in LM), “sei fermo? / Cadrai.” (Mura-
les, 5-6 in LM), “giocando da solo / pauroso;” (Scrivere, 5-6, in VN).
Alla velocità affannosa che sembra talvolta impadronirsi del dettato
lirico, come in Chiusi ed aperti, aperti e chiusi (LM), un testo privo di inter-
punzione (se si eccettuano la virgola iniziale, i due punti al secondo verso
e il punto in chiusura), contribuisce l’assenza delle virgole. Nel verso: “Un
gregge di gatti / sinuosi scattanti” (Via di Monte Uliveto, 1-2 in LM) l’a-
bolizione della virgola sottolinea l’urgenza; altre volte, invece, asseconda l’e-
numerazione disordinata: “(cartapeste vernici liete maschere / avanzi sciatti
inganni insudiciati)” (Stanza, 5-6 in MsE). se il suo impiego scandisce la
trama logico-temporale, la sua mancanza porta tutto nell’assoluto, nell’e-
terno presente: “Azzurri gialli ciclamini / strillano di gioia / strappata al
vento / e sfidano le rocce radicati // dirimpetto alla pietra che sovrasta /
liberi come dorati pensieri.” (Azzurri gialli ciclamini, in VN). In alcuni casi,
la virgola, viene impiegata per isolare e dare risalto a un ultimo elemento
della frase: “La radio la mattina, le parole.” (La radio la mattina, le parole,
in VN), oppure per specificare, accrescendo il pathos: “Era triste il mio
cuore, di ghiaccio.” (Plurale, 2, in VN).
Meno raro è l’uso delle parentesi che sembrano talvolta suggerire
dei veri e propri «a parte» da libretto d’opera: “Ma poi sull’onda / (è
fredda davvero) / (si dimentica sempre qualcosa)” (La tuba rosa, 6-8 in
LM), oppure provocano una diversa modulazione del tono: “Come una
mano che stringe una mano. // (Come una mano che morde la mano)”
(Matrimoni immaginati. 1993, 3-4, in MsE), o ancora problematizzano il
dettato, ottenendo quasi un effetto di sdoppiamento: “sono (mi sento)”
(Parole e righe, 9 in MsE), o inframmezzano inserti di una musica lontana,
caricandola di senso: “E d’improvviso // (… son fili d’oro i tuoi capelli
biondi, / e la boccuccia è rosa…) // le pure note dell’adolescenza” (Contropassato, 3-6 in MsE) o ironicamente sottolineano dei termini per illu-
minare la realtà da un’altra prospettiva: “Di queste righe non dirai, (mai)”
(Mesto sussurro, in MsE). Le parentesi sono l’espediente tipografico capace
di rappresentare il caratteristico procedimento per aggiustamenti del tiro,
riformulazioni, che rompono l’unicità di una voce per dare spazio alla
polifonia. Come la scrittura aforistica, anche l’uso delle parentesi nasce da
una precisa visione del mondo, quella cioè di opporsi a un pensiero siste-
matico che è esaustivo, totalizzante. La parentesi, invece, è pensiero fram-
mentario, che nasce dall’incertezza, e, differentemente dalla scrittura asser-
tiva, è complexio oppositorum non virtus unitiva.
Non raramente, si trovano i tipici segni dell’oralità e dell’emotività: i
punti di domanda e i punti esclamativi. I primi sono segni costitutivi di C.
che sempre si è affannato in un’interrogazione infinita verso di sé e verso il
mondo. Il punto interrogativo presuppone una problematizzazione, un
mondo non determinato, ma diverso, nel senso che vuole un cercare e un
ricercare ancora; dà voce alla frantumazione, al brulichio e all’arabesco, per-
ché apre alla possibilità in contrapposizione all’unità e al pensiero siste-
matico: 33 “(io, perché io?)” (Quetzalcoalt, I 8, in MsE), dove, fra l’altro,
sarà da notare l’uso dell’interrogativo in combinazione con la ripetizione
enfatica e con l’uso delle parentesi che isolano il pronome. In fondo, i punti
interrogativi sono per la punteggiatura ciò che per il lessico è la parola
«forse» (avverbio usato spesso da C.): una denuncia pacata delle mille pos-
sibilità. 34 Talvolta, il punto interrogativo esprime uno spaesamento: “Infan-
zia. E poi? / […] / Puerizia. E poi?” (Mille scuse per esistere, 1 e 5 in MsE),
o ancora la presa di coscienza di un insoluto enigma: “Esiste il luogo o è
solo segnato?” (Segnaletica, 7, in MsE) o la drammatica protesta di fronte
alla propria inconsistenza: “Ch’io non sia?” (Congetture, 8, in MsE). Per concludere questa analisi, mi piace citare una pagina di Ugo
ojetti sul punto esclamativo: ‘odio il punto esclamativo, questo gran
pennacchio su una testa tanto piccola, questa spada di Damocle sospesa su
una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il
buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo delle bocche vuote, questo
punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani, quest’asta della
bestemmia, questo pugnalettaccio dell’enfasi, questa daga dell’iperbole,
quest’alabarda della retorica.’ 35
Tuttavia, in C., ben lungi dall’avere solo un effetto enfatizzante, il
punto esclamativo esprime una pluralità di modi, una polifonia dello
sguardo. Raramente è usato per esprimere un ordine o un comando, piut-
tosto un desiderio: “Ho così bisogno / d’una riga mia!” (Parlo in asso-
nanza, 7-8, in MsE), o un entusiasmo e uno stupore: “oh pura mattinale
impresa, oh gioia!” (La Creazione, 9, in LM), o ancora enfasi, un’esplosione
incontrollabile dell’anima giovane: “oh quanto ti volevo bene! Anni” (in
LM), un sospirare disilluso: “Non troverò più luce. oh, vana corsa mia!”
(Ogni mattina arrivo, sempre da più lontano, 4, in MsE), una garbata auto-
ironia: “siamo simpatici, noi rossini!” (La rispettosa coralità, 9, in VN).
Infine, merita segnalare questo verso, che appartiene a un volume più
tardo: “sai, ho patito tanta solitudine. / Ma la volevi!” (Sai, ho patito tanta
solitudine, 2, in CV), in cui il punto esclamativo rimarca il passaggio dal
discorso del soggetto lirico a una nuova sorgente enunciativa, probabil-
mente interna all’autore: è, insomma, la sottolineatura di un io ripiegato
nell’auscultazione di sé, indice – se mai ce ne fosse bisogno di ribadirlo – di
quella pluralità di voci da sempre perseguita dall’autore.