Lo sguardo di Alberto
Alberto Caramella è, come tutti o quasi gli scrittori contemporanei, ma con particolare coerenza, il miglior critico di sé: «Bisogna aver già letto quando scrivi / proprio come il lettore leggerà» (da La casa della luce, Paradigma impossibile). In Interrogazione di poesia: «Ho cominciato a scrivere dalla fine. / Per l’impazienza. Per sciogliere l’enigma».
Quale enigma può essere sciolto nella poesia, in questa ‘festa di vivere’ espressa dalla parola? Quello del sé, soggettivo ed oggettivo, che, in apparenti dissimmetrie, giunge a una ipotesi di simmetria. Ed a ciò è necessaria la collaborazione fra poesia e architettura, esaltata, con Lorenzo Papi, nella costruzione e nel canto su La casa della luce, il libro dove Caramella si rifà, non a caso, alla chiarezza e all’essenzialità teorizzate da Calvino nelle Lezioni americane. L’autore, nel costruire ogni sua opera e nel collegarla all’altra, insegue la generosa utopia non più di costruire una cattedrale, come Dante nel Medioevo, ma di fare quasi epistemologia in versi, di dare un’interpretazione poetica che, pur rispecchiando la molteplicità e la frammentarietà del mondo di oggi, riporti un ordine, una armonia classica.
In Pulizia, con la consapevolezza dello studioso di retorica, analizza la parola, la percezione che l’ha generata, quasi in un’autoanalisi freudiana: «L’io si specchia con se stesso si rileva si guarda...». O in un riferimento all’inconscio collettivo di Jung: «La parola.... lo scavo del sapere è nel sapere della parola. Non solo il sapere che noi possiamo raccogliere in superficie, ma il sapere che nella parola si è accumulato dal passato» (da Pulizia).
Anche metaforicamente Caramella esprime, nell’analisi di La Crocifissione di Gruenewald, un’importante chiave interpretativa per la sua opera poetica: «La compresenza è il requisito della suprema eternità».
Di compresenza di vari motivi e stili bisogna parlare anche e soprattutto per Il Libro Liberato, in cui si ritrovano i fili poetici di tutti quei contenuti che, secondo Cristina Campo, sono oggetto della poesia: la memoria, il sogno, il paesaggio, non solo seguito nello svolgersi poetico del fenomeno naturale (per esempio, la nebbia, che «s’infiltra lenta», e, in una metafora quasi barocca, «lunga si arrotonda ed a mezz’aria pendola / finché col pettine / la luce a sé la tolga»), ma un mondo totale «bella d’erbe famiglia e d’animali», dove c’è il giaguaro e la lumaca, perché «in natura non c’è ripetizione», ma solo ‘energia’ (da Frutti); infine la tradizione, vista come continuo apporto alla costruzione di un mondo alternativo alla realtà presente, che, nelle arti e nella parola, ricostruisca una perduta armonia, proprio nel senso foscoliano di una sopravvivenza possibile. Il testo è nel continuo fluire, consapevole e inconscio, di realtà, riflessioni malinconiche e ironia che le contiene; ma non possiamo certo cadere nell’inganno che un autore della cultura di Caramella liberi il verso e quindi se stesso senza una costruzione architettonica, sapiente nel tenere desta l’attenzione e variare ritmi e strutture linguistiche e lessicali. L’autore si pone come genio a tutto tondo, capace di invadere la pagina, senza però diluirsi: è un viaggiatore attraverso le immagini, ma queste, liberate, ritornano sempre al dantesco ‘cerchio’, in un ossimoro vita-morte, in cui si muovono le ‘percezioni’ e le ‘compresenze’ nel gioco dello ‘spazio-tempo’.
Due testi, fra tanti: Libertus, cioè liber libertus, (da Pulizia, pag. 104). L’autore pensava già da tempo al significato di questo testo: dopo aver tanto scritto, pur nella consapevolezza dell’epilogo esistenziale, conclude in una sottile disquisizione che nega il concetto di fine come limite: «Qualcosa, dopo, accade: anche niente. Allora vale la pena di ammetterlo: il libro liberato è un libro senza fine». Proprio per questo si contrappone alla morte, perché «In questo labirinto / l’inizio non ha fine», come afferma nella sezione «Emistichi»,(pag. 159). Quando l’implosione, dalla sezione ‘Caule’ de Il libro liberato, pag. 113; ritorna qui, programmatica, questa riflessione sul cerchio, metafisico e poetico «la nascita sarà / dalla vecchiaia»; dalla nascita alla morte alla rinascita (non a caso ‘caule’ in botanica è il fusto, che collega le radici alle foglie).
Fino dalla I sezione ‘Somme e sottrazioni’ si rilevano elementi comuni a tutta la raccolta, anche se poi le singole sezioni sviluppano più l’uno o l’altro; si ha l’impressione di un romanzo in versi, che ha un solo protagonista, il quale però usa poco il termine io, non per scelta di una poesia oggettiva, ma con l’intento filosofico di trasformare l’io in sé al centro (o talvolta alla periferia?) di una realtà percettiva. Caramella è autore la cui spontaneità è, paradossalmente, quella di disorientare il lettore (talvolta esplicitamente, come nella I poesia di ‘Panorami’, tutta giocata su motivi ed echi danteschi, nella consapevolezza della «immensa pazienza infinita», che rende il poeta ‘macro’). Del resto i riferimenti a Dante sono costanti, sempre da minor a maior, ma anche con l’ambizioso intento di «sfogliare cristallo dopo cristallo / versi infiniti la luce di tanta poesia» (idem).
Ma la sua è sempre poesia colta di citazioni, dai classici, soprattutto Orazio e i poeti satirici della tarda latinità, ai classici italiani – di cui riprende e varia il verso principe, l’endecasillabo – ai moralisti del ’600, Pascal in primis (v. ‘Emistichi’); fino agli scrittori del ’900: non mi sembra molto presente l’influenza di Ungaretti, se non nei termini in cui Caramella è di tutto avido sperimentatore (v. «Greggi d’animali esotici più chiari / al corso delle luci levigate..», che ricorda Isola). Ma presentissimi sono Montale, nel suo interrogare tutta la realtà, e il Caproni, quello del pessimismo ironico e aforistico, nella visione più fisica che metafisica, più secondo il principio di casualità che quello di causalità; così nella corrosiva polemica sociale condotta, specie in ‘Emistichi’, a flash fulminanti, «La catena alimentare oscilla....», e che porta addirittura oltre la gnomica dell’ultimo Montale. Da lui riprende anche il modo di trattare la metafora, fino dall’immagine iniziale del salmone nell’exergo, il correlativo oggettivo (esemplare il distico settenario-endecasillabo da ‘Caule’: «La banderilla oscilla / la cosa attende il colpo della spada», pag. 144). Altrove si sentono gli interrogativi volutamente vaghi di Gozzano («forse ci sono / forse sono stato», pag. 258, Totò Merumeni) e la sapiente svagatezza di Palazzeschi; le immagini di cultura nell’umanità del quotidiano come in Saba (da Fiori, pag. 200), fino alla rielaborazione quasi sceneggiata di Papà Goriot di Balzac in Ardori, dove, come altrove, si rileva il distacco che l’autore calca appunto attraverso la nonchalance della citazione culturale.
Caramella è scrittore ossimorico, proprio in senso esistenziale e culturale, dall’inizio alla fine: «In tanti sono morti dentro me, / e non sapevo più se fossero me», da Emistichi, nel continuo rispecchiarsi in un alter ego, in cui è ben presente la lezione pirandelliana: «Di tutti questi libri / un altro non io o me / ne va rimproverato», idem.
La sua poesia non esclude mai un progetto razionale, entro il quale i vari motivi si alternano sapientemente per tenere desta l’attenzione e variare il ritmo. Anche la metrica è strutturata classicamente; ho già detto dell’endecasillabo, a cui segue, come frequenza, il settenario, con qualche alternanza di novenari e brevi versi finali, spesso quinari, talvolta con licenze prosastiche, quando il ragionamento prevale e urge di compiersi. La rima è libera o assonanzata; il lessico colto, anche nel realistico, molto vario, come in Montale, per l’uso di termini tecnici o sapienziali (per esempio dei Salmi della Bibbia in generale, negli ‘Emistichi’) e di qualche miscelazione linguistica; la struttura sintattica è, secondo l’argomento, scandita in sentenze, molto articolata in argomentazioni, abbandonata a toni musicali quando c’è la vera emozione del cuore.
Importantissimi i titoli, nei quali egli stesso traccia l’itinerario del labirinto, per poi magari rimescolare le carte perché bene ha appreso la cultura mediatica (da ‘Caule’, la bambola computer...). Dal caos all’uno (plotiniano, come hanno affermato alcuni critici) attraverso aggregazioni e disgregazioni, ricuperi di sentimenti e ironia sugli stessi e anche visione volutamente impietosa degli effetti della vecchiaia su di sé, reso quasi feticcio della esistenza. La metafisica si riduce a poca cosa a contatto con le impietose verità della malattia e della vecchiaia, in una concezione simile a quella di un Leopardi più incisivo e ironico, che compare fino dalle Operette morali: «Felicità purissima / l’assenza del dolore» (da ‘Emistichi’).
Ma in questa prima raccolta c’è anche un’onda di ricordi leopardiana, però con bellissimi attacchi che stanno piuttosto fra il vitalismo quasi dannunziano («Oh giornate trascorse nel vento / gioioso dei colli fra i tuoi capelli....») e l’intimismo modernissimo («La mia casetta era piena e assolata di gatti....»,). Si incrociano i fili poetici della casa, delle piante, unica costante su cui l’autore non irride mai, ritrovando nel mondo vegetale una affinità elettiva per unione di spontaneità e complessità, dall’auspicio di «Vorrei che mi tenesse compagnia / nei primi giorni della prigionia / chinando le sue grandi foglie rosee / la pianta rossa d’angolo / di casa mia», alla poesia con cui inizia la sezione ‘Frutti’: «Oh casta gioia di fondali ver-‐ di....», ad una delle liriche più autentiche, quella che apre la sezione ‘Fiori’: «Cipresso l’albero più triste..». Una parte del libro quest’ultima che mi piace molto per il suo tono lieve, musicale, in cui i fiori sembrano rappresentare la giovinezza, il passato che talora, con tono fatto improvvisamente icastico, si contrappone al presente, come le donne pascoliane (ma in un ritmo meno cantabile) dalle mani raggelate, che battono i panni nella conca, contrapposte alla macchina lavatrice. Qui è affermato con forza l’ossimoro, usato anche come strumento di critica sociale, che giustamente Giachery ha visto come motivo dominante della concezione di pensiero di Caramella: «L’ossimoro annienta / fusione che sprigiona l’energia», cui segue un esplicito accostamento morale alla leopardiana ginestra «ruvida che non cede». Con la natura si intreccia spesso il tema del ricordo e continua quel motivo della vecchiaia, spesso ritratta, con l’espediente retorico della antiretorica, nella sua crudezza; ma che è anche la stagione in cui si abbandona ogni pena, e anche la complessità razionale e il dubbio esistenziale, che sono tipici di un autore così implicato in conoscenze matematico-‐filosofiche: «Foglie infinite salmastre dal vetro... non c’era niente più di complicato» (da ‘Caule’).
La vecchiaia porta anche una visione più dolce e malinconica della donna, di fronte alla cui bellezza il poeta ha quasi un rispettoso timore. Caramella non è poeta d’amore, ma piuttosto di ritratti in punta di penna, di una galanteria belle époque, o di constatazioni forti, come «Un corpo accanto conta sempre più / di quel che si può fare di quel corpo» (Moltiplicazioni e divisioni), ma la bellezza è armonia che lo incanta, come quando vede «tra capelli neri un riflesso rosa / opera d’arte vera» (da ‘Fiori’).
Ma bellezza suprema è soprattutto quella che scorge nei suoi colli, la natura purificatrice del suo paesaggio fiorentino, che ritorna nelle belle quartine della poesia finale della sezione ‘Fiori’: da S. Leonardo a Costa a S. Giorgio a Costa Scarpuccia.
In questo intrecciarsi e fondersi di motivi, possiamo quindi ritornare alla descrizione, calda di rimpianto, della latteria di via Tornabuoni, che, non so perché, mi rievoca una mattina in latteria descritta da Pratolini in Diario sentimentale. Diversissimo da Pratolini, però, in quanto gli manca la speranza del vento di rinnovamento della cultura post-bellica, la scrittura fresca di quella speranza; Caramella è autore del suo tempo e, come tale, disingannato dal potere, dalla cultura salottiera (che però riconosce anche sua, come in una grande farsa-realtà), dai «greggi per consumo» (da ‘Tempi’); un tempo che però, nella sua concezione ciclica, è anche il tempo di sempre in una «storia di sconfitti / vittime escluse e senza scelta avulse».
Quella della poesia civile, più che sociale, è anche una delle sue scelte, ma, a mio parere, pur nella scarnità delle parole e nella sincerità delle intenzioni, più retorica di altre; perché la sua poesia oscilla sempre piuttosto fra il classico, il romanticismo prometeico o elegiaco, la poesia filosofica, la nudità di una moderna arte figurativa della esposizione degli oggetti, infine e meglio quando c’è il tocco, attuale sempre, di far parlare l’emozione.
La visione della realtà non muove, come in molti poeti di oggi, verso un itinerarium mentis in Deum: ci vorrebbe uno sconvolgimento del genere di quello di Papini per un autore come Caramella (dove è il confine, per certi autori, fra retorica e sincera umanità?) che è per natura ambivalente e critico, con una formazione non certo spiritualistica, ma se mai fenomenologica. Certo nella sua cultura c’è l’esperienza biblica e quella dei grandi moralisti, ma c’è quasi un pudore di fronte al varco montaliano fra morte e vita, che rimane affidato a un qualche ripiegamento sommesso di speranza, mai a una qualche certezza.
Un’ipotesi, forse azzardata, di critica psicologica: la scrittura, per un autore così sistematicamente asistematico, è anche esorcismo: in prima fase sperimentazione del passaggio da una carriera brillante a un’attività teorica in cui sperimentare un uguale successo, una sfida dettata dalla volontà di scoperta tipica del Rinascimento fiorentino, come la generosa utopia, ma anche realtà culturale dei grandi mecenati del Rinascimento, con la loro concezione di un umanesimo globale.
Tanti passaggi, in una linea che va all’infinito, di cui il Libro liberato è soltanto la prima tappa di una forse più vera apertura di sé ai temi esistenziali ultimi, della vecchiaia e della morte: questo mi fa pensare ad una citazione di Cioran, fatta dallo stesso Caramella: «Tutto ciò che prefigura la morte aggiunge un carattere di novità alla vita, la modifica e la amplifica» (da Sommario di decomposizione, del 1949).
La scrittura è qui anche saggio esorcistico nell’affrontare tali temi, ed ecco l’affiorare continuo della riflessione che si fa nota elegiaca, che ci consente un maggior contatto con l’autore essere umano sempre schermato dall’ironia. Ma attenzione a non avvicinarsi troppo, a non prendere troppa confidenza con le ferite prodotte dalla consapevolezza dell’incipiente debolezza. Il vecchio leone, nella sua fragile speranza metafisica, può riservarci altre sorprese. L’energeia, come lavoro (dal greco ergon) di scrittura mai compiuto, e come lavoro interiore, è sempre attiva.
Caramella visita tutti i poeti e le correnti contemporanee, le sperimenta, ma non le abita, rimane poeta della tradizione, che rinnova in modo misurato.
Una costante regia dell’autore conduce a una metapoesia onnicomprensiva, in quanto rompe lo sviluppo armonico della tradizione, ma nello stesso tempo, non creando iato, tenta una operazione universale.
Il frequente rivolgersi al lettore è quasi una excusatio, che nasce dalla necessità del poiein, in cui l’autore alterna pessimismo e una disperata speranza, quella stessa che ho visto nei suoi occhi quando scrutava vigile e, col dono della vecchiaia, conoscendo già tutto (o quasi).